Articoli su Giovanni Papini

1956


Delia Frigessi

Per un giudizio su Papini

Pubblicato in: Il Ponte, anno XII, fasc. 8-9, pp. 1405-1412.
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Data: agosto - settembre 1956



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   La morte di uno scrittore non aggiunge e non toglie al valore dell'opera; e tuttavia l'esigenza del giudizio storico si fa, in tale occasione, più profonda, e dalla cerchia degli storici e dei critici di professione, dall'ambito della cosiddetta «alta cultura», penetra in più vaste zone della società nazionale. Quale significato, quale valore ha l'opera di Papini nel nostro tempo? A questa domanda si è risposto volgendo maggiore attenzione al Papini poeta e scrittore, e dunque al valore suo letterario, oppure al Papini «intellettuale», rappresentante di vicende ideologiche e culturali della prima metà del Novecento.
   I critici letterari di Papini, dopo la sua morte, si sono limitati a riprendere il proposito dei loro più autorevoli predecessori: i quali tutti, a cominciare dal Serra per finire con il Cargiulo, avevano cercato di impedire che il mito, allora assai vivo, dell'uomo Papini, conducesse a sopravalutarne le virtù letterarie, facendole brillare di luce non propria. Codesto comune intendimento non cancellava, s'intende, la diversità del loro giudizio.
   Nel 1914, pur dando credito al «singolare» personaggio dell'autobiografico Un uomo finito, Serra scriveva: Papini «non è quello che pare.... è quasi soltanto uno scrittore, nel senso più vecchio e più retorico della parola; un facile e pronto e robusto scrittore»; e gli attribuiva addirittura «il taglio forte e preciso di una materia superbamente toscana, che fa pensare al Carducci» 1. Un anno più tardi, non esitava ad elogiare le Cento pagine di poesia: «le sole "illuminazioni" ch'io conosca, degne del nome, per la solidità fantastica e la astrazione» 2. Di fronte alle medesime Cento pagine di poesia, Boine, più accorto benché moralista (e converrà ricordare che, a quel tempo, Boine aveva già assunto una posizione di critica nei riguardi del gruppo «vociano»: al contrario di Serra che, deposte le precedenti sue ostilità, vi si era accostato), esprimeva invece significative riserve 3


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e obiettava: «Uno, di colpo, non può mettersi a fare il Rimbaud, se prima s'è compiaciuto di fare il prosatore da antologia!» 4.
   La voce di Boine resta, tuttavia, pressoché isolata 5 e priva d'immediati sviluppi. Spetta infatti a Prezzolini concludere, in argomento, il panorama critico del primo ventennio del secolo 6 con un duplice omaggio, del 1915 e del 1922, al «grande amico»: «Della nostra generazione Papini resta il lirico più forte e lo scrittore più solido, oltre che lo spirito più rappresentativo» 7. Prezzolini accetta, senza l'apporto di motivi critici originali, la «posizione» di Serra cui si richiama, invero, esplicitamente; cade tuttavia nell'apologia e, pur esortando ad interessarsi dello scrittore più che dell'uomo, concede non poco al mito deteriore di Papini «angelo delle tenebre e della negazione, dell'orgoglio ferito e della corrosione» 8.
   Dopo il conciso giudizio crociano, dimentico di ogni anteriore polemica nella sua obiettiva severità 9, occorre giungere fino al Gargiulo, per trovar contestato e rovesciato non solo il giudizio su Papini, rappresentante di un nostro «Sturm und Drang» novecentesco, ma anche quello — nel complesso positivo, come si è accennato — sulla sua grandezza di scrittore. In una serie d'articoli del 1930 10, Gargiulo chiarisce il carattere intellettualistico della lirica papiniana; smantella il mito di Un uomo finito, a torto considerato «il libro delle "crisi" per eccellenza»; infine, per questa via ampliando il giudizio, conclude: «Le "crisi" del Papini, d'un romanticismo cerebrale e generico, oltre che fuori tempo, furono un fatto tutto suo e senza riscontro, neanche approssimativo, in altri scrittori italiani di quegli anni» 11.
   Si prendano ora, come punto di riferimento, i giudizi del Cargiulo e si paragonino all'atteggiamento assunto dai nostri critici letterari verso Papini, nel 1956: il regresso apparirà evidente. Eppure quest'ultimi avevano da vagliare anche quel «secondo» Papini, convertito al cattolicesimo


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e ad un classicismo di stampo tradizionale, che il Gargiulo eccezion fatta per Pane e vino, del 1926 — non aveva considerato. C'era soprattutto da dire, e da verificare sui testi, che Papini non è quel grande scrittore che in Italia ancora si dice: appartiene alla schiera dei nostri «minori» del Novecento; e l'opera sua deve, in gran parte, la risonanza a motivi estranei alla letteratura. Un discorso generico, come ad esempio quello del Bo, sul contributo offerto dal Papini poeta, che non ne indichi i luoghi ed i modi peculiari, neanche quale approssimazione può soddisfare 12. E del Cecchi, partecipe un tempo del clima «leonardiano» e «vociano» di cui il Papini fu magna pan e che ne scrive in un'ora «di rammarico e di ricordi», ha valore critico soprattutto il suggerimento a cercare il Papini poeta più nei «poemetti in prosa, bozzetti, idilli, confessioni» che nella «scarsa e saltuaria» produzione in versi 13.
   Papini stesso ne fu consapevole: nell'edizione delle sue opere, volle infatti distinguere la propria poesia in versi da quella in prosa. Trascurando questa distinzione, di valore formale, è certo che il Papini poeta, provvisto di vena lirica, esile ma autentica, si manifesta soprattutto là dove la freschezza del sentimento idillico non è soffocata dall'astrattezza dei propositi intellettuali. Nelle prime composizioni delle Cento pagine di poesia (1915); nei bozzetti e paesaggi dei Giorni di festa (1919), dove la contemplazione ingenua e perciò realistica del mondo non si grava di simboli e d'allegorie; nella semplicità degli affetti familiari e rustici di Pane e vino (1926): è da cercare la sola prova della poeticità papiniana. Già in Opera prima (1917) la si ricerca invano; l'intellettualismo predomina e si esprime nell'imitazione tecnicistica di Mallarmé e dei poeti d'avanguardia francesi.    Alla composizione di Opera prima presiede una poetica intellettualistica. La poesia è, per Papini, «aristocrazia: tenebrosa e distinta»; l'arte artificio: «cioè convenzione e fabbrica, opera di testa e di volontà» 14. Dieci anni dopo, nella prefazione a Pane e vino, Papini rinnega questo ideale estetizzante. Gli effetti della conversione religiosa si fanno sentire nel passaggio dal formalismo ad un contenutismo, che intende affermare la contiguità tra poesia e religione: «Senza una fede forte poesia non si fa.... Il santo è più grande del poeta, ma subito dopo il santo viene il poeta e la poesia è scala verso la 'santità» 15. Questo abbozzo di poetica non ha conferma estetica. In Pane e vino le composizioni d'argomento religioso e quelle che Papini dedica a Dante, a Colombo, a Michelangiolo e a Leopardi, in conformità


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all'aspirazione maturata in quegli anni a rappresentare in Italia il nuovo Carducci, poeta vate ed interprete dell'anima nazionale, sono un penoso documento di decadenza artistica.
   Accanto al poeta, tutt'altro che grande e di vena presto esaurita.. è forse giustizia ricordare il Papini letterato. Più che nei ritratti e nelle memorie, le sue «qualità di talento», l'estrosità e la maestria a volte seducente nel mescolare elementi satirici e patetici, nel dare ragioni di stile a qualche fragile costruzione intellettuale, si trovano nei racconti brevi, e per lo più allegorici; dell'anteguerra o in qualche pagina di Un uomo finito. Le fonti letterarie dei racconti sono, come il Cecchi ha notato, in Hoffmann e Poe; e bisognerebbe aggiungere che essi, fatti di una letteratura allusiva ed ambigua che spesso copre con il grigiore degli accenti l'aspirazione al superuomo, appartengono al clima decadente dei dannunziani e dei crepuscolari. Invano Papini cercò, attraverso un ammodernamento dei miti e le allegorie, di uscire dai limiti dell'autobiografia e del solipsismo; gli mancarono la forza della fantasia, la capacità di oggettivare, proprie al romanziere.

* * *

   Nell'ambito della valutazione ideologica, che dello scrittore considera anche le responsabilità pedagogiche, di educazione civile e letteraria, le opinioni sono apparse concordi soltanto nel dividere a mezzo l'opera papiniana. La prima metà appartiene al «grifagno Gianfalco», all'iconoclasta del «Leonardo», della «Voce» e di «Lacerba»; la seconda metà al Papini cattolico, tradizionalista, conservatore: e la conversione religiosa, maturata negli anni del primo dopoguerra, segna il momento della rottura. Si vedano i giudizi «ufficiali» della stampa cattolica: da quella parte (com'era da prevedere) il primo Papini ha trovato gli accusatori, il secondo gli apologeti 16. Da parte laica, invece, si riconoscono meriti al solo Gianfalco e si svaluta l'opera papiniana posteriore alla conversione 17. Accettando uno di codesti schemi, si finirebbe dunque per credere all'esistenza di due diversi Papini; più conforme a verità sarebbe per contro riconoscere che l'opera sua e la vita posseggono — sotto la superficie della diversità — una coerente unità d'ideologia e di sentire. Non si cada, con ciò, nell'errore di trasformare per astrazione Papini in un simbolo; soltanto attraverso la concretezza dell'analisi storica — per molte parti ancora


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da compiere — si svelano in lui, palesi più che in ogni altro intellettuale del secolo, le debolezze morali, culturali, politiche di quella parte della nostra «intelighentsia» che fu responsabile della recente involuzione fascista, al pari della classe politica.
   In più di mezzo secolo d'attività, ininterrotta dalla prima giovinezza all'estrema vecchiaia, le ambizioni, le aspirazioni di Papini non hanno subito mutamenti profondi. Fin dagli anni intorno al '98, allorché — non uscito ancora dall'infatuazione positivistica — passa «dalla Repubblica di Mazzini all'Anarchia di Stirner» e sogna un «nuovo Primato d'Italia», Papini ha professato il culto della grandezza, degli eroi, del superuomo. Quest'ideale di grandezza lo ha sempre guidato per le vie della cultura: che non rappresentò per lui un fine di civiltà, un modo non soltanto individualistico per meglio comprendere ed avvicinare le realtà del mondo o le verità della ragione, ma soprattutto gli parve strumento di potere. Ciò giova ad intendere le sue inquietudini intellettuali del primo Novecento, che si espressero nell'accettazione acritica e sentimentale delle più varie esperienze filosofiche e culturali del tempo, tra loro non di rado divergenti: l'intuizionismo bergsoniano e il pragmatismo del James, degenerato in magia e in metapsichica, l'anarchismo stirmeriano, l'idealismo e il futurismo. Codesto Papini, che fu detto «girandola», esercitò notevole attrattiva sui contemporanei e soprattutto sui giovani: come non giustificarli, se persino il Croce, e sia pure in nome dell'antipositivismo, cadde, in un primo momento, nel loro medesimo errore.
   È giusto riconoscere che nei primi anni del secolo Papini ha sentito, e non soltanto subito, la crisi della civiltà europea; ch'egli ha in quel tempo intuito la necessità di difendere l'iniziativa dell'uomo, la sua spirituale libertà, oltre gli schemi intellettualistici o teologici 18. È tuttavia sul modo papiniano d'intendere e di praticare la libertà, che si esprime il dissenso. Ansia e coraggio di libertà non si ravvisano nelle avventure culturali da Papini intraprese non tanto per gusto polemico o d'anarchia, quanto per una debolezza interiore che gli precludeva la scelta, per incapacità a toccare il nocciolo dell'esperienza. Egli ha confuso libertà con vitalità, e con la fedeltà all'irrazionale; l'ha impoverita così ad una dimensione soltanto individualistica per identificarla alfine con il potere di creare la realtà, di mutare gli uomini. E ciò, si badi bene, non nel senso storicistico: bensì, tutt'al contrario, in un modo estremamente soggettivistico, che si espresse in aspirazioni mistiche e persino in sogni taumaturgici; con un appello al «miracolismo» che trovò sbocco nella conversione religiosa.
   «Il problema è uno solo: sono gli uomini immutabili, non trasformabili, non migliorabili? Può invece l'uomo trasumanarsi, santificarsi,


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indiarsi? Tutto il nostro destino é in questa domanda.» E: «Chi ricuserà. d'esser simile a Dio, d'essere con Dio? Díi estis». Queste parole non appartengono — come qualcuno forse potrebbe supporre — agli articoli del «Leonardo» bensì alla Storia di Cristo; e significano l'ultima speranza, da Papini tenacemente perseguita né mai abbandonata, di trasformare in realtà il giovanile sogno «leonardiano» dell'uomo-Dio. Da questo punto di vista si può concordare con il giudizio del Gobetti, al quale il vero Papini apparve quello cattolico. In verità il Gobetti sopravalutò il cattolicesimo papiniano, non ne intese la povertà religiosa. Ne è prova l'entusiasmo tributato alla Storia di Cristo, che definì «libro purissimo» e ricco di «meravigliosa fantasia» 19. Ma dalla Storia di Cristo fino al salvataggio del Diavolo, nelle opere dedicate ad argomenti religiosi come in quelle di critica letteraria e di polemica, si troveranno molte argomentazioni «secentiste», alcuni pezzi di bravura rettorica ed oratoria, una costante esortazione, di valore meramente intellettualistico, all'amorosa fraternità tra gli uomini — brutalmente poi contraddetta da atteggiamenti politici tutt'altro che pacifici od umanitari —: non una pagina sola, ove siano accenti di profonda religiosità 20.
   Anche perciò, al contrario di quanto accade per quello del Gobetti, appare oggi ancora valido il giudizio del Gramsci: «Papini si è convertito non al cristianesimo, ma propriamente al gesuitismo» 21; e per gesuitismo il Gramsci intendeva «l'organizzazione di un impero assoluto spirituale». Il cattolicesimo papiniano fu, in tale senso, «imperialistico» e sostanzialmente retrivo; sordo, nel campo culturale, all'esigenze, liberali o sociali, del cristianesimo europeo ed in genere a quelle più vive del mondo moderno. E se si pensa al Doctor Faustus di Thomas Mann o al Portrait of the Artist as a Young Mann di James Joyce, risulta evidente che alla personalità di Papini fanno difetto anche le venature demoniache o sataniche; né possono trarre in inganno le esercitazioni giovanili. Nel recente Diavolo (1953), Papini intese negare la necessità del male e del peccato nella storia nel mondo; in contrasto con gli spiriti veramente religiosi d'ogni tempo e soprattutto di quello moderno, Papini non ha mai sentito il valore del peccato che, oltre ad essere premessa o veicolo di purificazione, ha anche uno stretto rapporto con l'umana libertà. A questo riguardo si potrà parlare, in senso negativo, di una sua fondamentale sanità.


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   «Qualunque sia il governo del mondo sarò sempre all'opposizione»: l'orgogliosa affermazione, che si trova in Un uomo finito, e smentita dalla storia per quel che concerne il Papini degli anni successivi alla conversione. È invece vero che, durante il primo quindicennio del secolo, Papini fu all'opposizione nel campo filosofico, culturale, politico; e difatti, in sede di divulgazione culturale, i suoi meriti di quel tempo — dagli anni polemici del «Leonardo» a quelli, in apparenza «desanctisiani», della prima «Voce» — sono incontestabili. A chi non faccia dell'opposizione un sinonimo di progresso, appare tuttavia altrettanto vero che, con quest'atteggiamento di oppositore, Papini anche allora si schierò, come in seguito, dalla parte della reazione. Non è, ad esempio, chi non veda come il suo acceso antipositivismo, che pur ebbe un iniziale influsso salutare sulla cultura italiana, lo abbia trascinato all'estremismo soggettivistico ed idealistico («il mondo son io!») ed infine al corrompimento della filosofia in attivismo, attraverso il pragmatismo trasformato in magia.
   In campo politico, codesta «opposizione reazionaria» è ancora più evidente. Accanto al Corradini e fin dai primi numeri. del «Regno» (1903) di cui fu redattore, Papini appartenne all'esigua minoranza dei nostri primi nazionalisti. Era il suo un nazionalismo antidemocratico, antisocialista e, nella fattispecie, antigiolittiano: che chiedeva alla classe borghese una politica «dura», con finalità imperialistiche e, all'interno, con un esplicito intento di dominazione sulla classe lavoratrice. Proseguendo per tale via, dopo il sanguinolento interventismo di «Lacerba», mal ammantato di falsi motivi ideali e «quasi metafisici»; e dopo la collaborazione al mussoliniano «Popolo d'Italia», nel 1937 Papini diverrà accademico d'Italia e nel 1939-1941, in Italia mia, scioglierà un inno celebrativo alla «santa e decisiva» guerra nazifascista, destinata a salvare la pericolante civiltà occidentale 22. In tale occasione, Papini non esita ad offrire una giustificazione culturale del fascismo, inteso quale continuazione della tradizione romana, ovvero classica; e poiché la «Romanità» è «divenuta, da più di millesecent'anni, petriana» 23, rispolvera il mito nazionalistico di un corrotto cattolicesimo giobertiano.
   Italia mia risponde anche alla velleità papiniana 24. a rappresentare lo scrittore interprete dell'anima e dei fastigi della nazione, maestro alle coscienze di vita civile, oltre che letteraria. Fin dagli anni


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dopo il '20, Papini prese posizione contro la letteratura pura, «di perditempi», in nome d'una letteratura «insegnativa e pedagogica» 25. Con ciò, egli intese riattaccarsi al Carducci, del quale osò più volte proclamarsi vero continuatore e discepolo 26, ma chi mai potrebbe confondere le sue Stroncature con Confessioni e battaglie?
   Attraverso il Carducci, Papini presunse d'inserirsi nella «tradizione italiana che si diparte dalla montagna dantesca» 27; poiché gli piacque distinguere due tradizioni, nella storia della letteratura italiana: «plebea e realista» l'una, l'altra «elegante e vuota» 28. Naturalmente egli parteggiava per la prima: quella dantesca, contro la seconda, petrarchesca e dannunziana. Cíò spiega le molte pagine da lui dedicate al Carducci ed i suoi libri più recenti su Dante e su Michelangiolo, dei quali volle far credere di condividere il cristianesimo «feroce», gli atteggiamenti profetici, l'animo sdegnoso e le vivaci passioni di cittadini e d'artisti. È sperabile che, a concedergli questo credito, non sia disposto più alcuno: ora che della sua opera conclusa più chiaramente si notano gli angusti limiti, ideologici e letterari.



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